Cinque leggende toscane

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Il ponte del Diavolo
La leggenda più nota e diffusa racconta che il mastro chiamato a compiere l’opera, messo in difficoltà dall’arduo progetto, avesse deciso per non rimetterci il nome e la fama di affidarsi al diavolo: chiamatolo in soccorso, quest’ultimo accorse prontamente ed edificò in una notte il ponte con le sue magnifiche arcate. Ma si sa che belzebù non fa né regalie né opere di bene, pertanto pretese in cambio l’anima di colui che per primo o per prima avesse attraversato il magnifico manufatto. Pentitosi il mastro decise di chiedere consiglio a San Frediano, allora vescovo di Lucca, che gli suggerì una soluzione davvero santa: far passare sul ponte un animale. Su quale esemplare avesse per primo attraversato il ponte differiscono le versioni oltre che su altri particolari, com’è tipico delle leggende che si rispettino: c’è chi parla di un cane randagio, altri di un porco. Fatto si è che comunque il diavolo venne gabbato e il suo lavoro non ripagato. Per l’offesa si gettò quindi dal ponte e sparì nelle acque del fiume. Le leggende si sa sono come le ciliegie e così una leggenda collegata alla prima racconta che il diavolo non si fosse rassegnato e che aspettasse sotto le arcate del ponte l’anima da carpire e che un bel giorno una donna, bella ed elegante, sporgendosi dalle spallette perdesse in acqua le sue gioie tanto importanti e di valore anche affettivo. Il diavolo pensò fosse arrivata l’ora del suo riscatto e decise di proporre uno scambio alla donna che non cedette neanche alla richiesta di vendergli l’anima del marito. Dunque per la seconda volta al diavolo fu impedito di conquistare quell’anima che già tanto tempo prima aveva perso: così Bartolomeo di Monaco racconta nella pagina intitolata appunto “Il ponte del Diavolo” con dovizia di particolari e raccolta in “Leggende Lucchesi”

La leggenda della lupa senese
Una leggenda, che viene fatta risalire al XIII secolo, racconta le origini di Siena e la dice fondata da Senio, figlio di Remo che Romolo uccise per fondare Roma e che ne perseguitò i figli Senio e Ascanio. I due giovani fuggirono su due cavalli, uno bianco e uno nero, portando con sé il simulacro della lupa capitolina. Giunsero sulle rive del fiume Tressa, un territorio abitato da boscaioli e pastori dove costruirono un primo accampamento cui aggiunsero tre fortificazioni sui tre colli sui quali ancora oggi sorge la città, per potersi difendere dall’assedio dei sicari mandati da Roma. Così Siena accoglie tra gli altri, come proprio simbolo, la lupa capitolina e la sua Balzana accampa i colori bianco e nero in ricordo dei cavalli dei due fratelli fuggiaschi. Se a Senio la leggenda attribuisce la fondazione di Siena ad Ascanio quella di Asciano.

La leggenda della bella Marsilia
Si racconta che nel lontano 1543 un’invasione di pirati turchi, capitanati da un certo “Barbarossa” fossero sbarcati in Maremma. Il fatto, non improbabile storicamente, è alla base della leggenda. Il territorio era stato precedentemente dominato dalla famiglia degli Aldobrandeschi che cedettero la proprietà intorno alla metà del 1300 ai Marsili una famiglia senese che lo tennero a lungo anche quando fu incorporato nel Granducato di Toscana al confine del cosiddetto Stato dei Presidi, un breve corridoio attraverso il quale la casa regnante spagnola poteva raggiungere i propri possedimenti oltralpe. Il toponimo si lega al nome di un’appartenente la famiglia, la bella Marsilia, una giovanetta di circa sedici anni di una bellezza sfolgorante per il colore fulvo dei suoi capelli e per gli occhi color del mare, mentre precedentemente era chiamata Torre di Collecchio. Le versioni, come spesso capita nelle leggende, sono diverse, ma ciò non toglie che la base storica sia comune a tutte. La bella Margherita di Nanni Marsili, detta anche la Rossa, rapita e trasferita a Costantinopoli divenne la preferita del Serraglio del Gran Signore Solimano cui dette anche un discendente: bellezza mezza dote, recita un vecchio adagio, ma per la bella Marsilia fu una dote per intero.

Sant’Antimo, la leggenda
Una leggenda lega il nome di Sant’Antimo a quello più altisonante di un imperatore tra i più illustri di un periodo travagliato di passaggio da una struttura imperiale, quella romana, a una nuova che ad essa si ispirava: Carlo Magno e il Sacro Romano Impero. L’imperatore l’avrebbe fondata nel 781, di ritorno da Roma, per una grazia ricevuta: il suo esercito si era fermato in val Starcia per sfuggire a un’epidemia di peste e avrebbe ritrovato la salute grazie all’erba che vi nasce detta quindi carolina. Si racconta anche che l’imperatore avesse fatto voto affinché il flagello della peste cessasse e avendo ricevuto la grazia fondò l’abbazia. Come spesso accade le leggende sono intrecciate l’una all’altra e con diverse sfumature raccontano la medesima storia: l’imperatore avrebbe fatto la deviazione dalla Francigena appositamente per portare le reliquie dei santi martiri Antimo e Sebastiano, ricevute dal papa Adriano I, e farne dono all’abbazia. Belle le leggende, comunque, anche se non sono perfettamente in linea con la storia. Ma tutti i luoghi insigni ne hanno una o addirittura varie. Sant’Antimo non poteva sfuggire alla regola.

Abbazia di San Giusto a Pinone
Un luogo che, come spesso accade per i siti sacri, emana un’energia particolare e che pertanto lo circonda un’aura mistica che sa di miracolo come racconta una leggenda sulla sua edificazione: fu fatta in una sola notte insieme a quella di San Baronto distante vari chilometri che comunque non impedirono ai due frati costruttori di edificarle scambiandosi i pochi attrezzi di cui disponevano: la mestola e un martello.

fonte; https://tuttatoscana.net

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