Il Cenacolo di Leonardo o Ultima Cena (4,6 m x 8,8 m), dipinto dall’artista toscano nell’allora Refettorio del Convento di Santa delle Grazie, a Milano, tra il 1494 e il 1498, rappresenta una summa dei saperi pittorici ed espressivi del pittore. Esso fu realizzato in tempera grassa, pigmento di colore in polvere stemperato in una miscela nella quale, entravano, di norma, uova, caseina e altre sostanze organiche, in grado di produrre effetti di morbida compattezza e un film pittorico traslucido, a differenza della tempera in acqua e dell’affresco. Tra gli altri prodotti utilizzati, anche la pece e il gesso.Tempere con rosso d’uovo come legante. Su questi strati di tempera è probabile che abbia compiuto rifiniture ad olio per dare riverberi e lucentezza al dipinto. Sono state trovate anche tracce di lacche rosse sopra gli abiti degli apostoli. Nella pittura murale quindi egli ha quindi utilizzato la stessa tecnica seguita per produrre piccoli dipinti su tavola. Tempera, olio.
In quell’epoca era diffusa la tecnica mista.
L’Ultima Cena di Leonardo non è un affresco, come molti, popolarmente, ritengono, ma un dipinto parietale realizzato su intonaco secco. La fragilità materiale dell’opera è collegata al fatto che mentre gli affreschi, asciugando, subiscono, grazie ai minerali contenuti nell’intonaco, un processo di carbonatazione – che crea una sorta di protezione dura e traslucida, in superficie – i dipinti parietali mantengono generalmente i pigmenti esposti. L’umidità della parete sottostante può accelerare il distacco delle particelle cromatiche che non sono ben legate al muro, mentre gli agenti esterni intaccano i materiali organici con i quali i dipinti murali sono spesso completati.
Leonardo rifiutò la tecnica tradizionale dell’affresco per due motivi, che appaiono evidenti nel suo percorso pittorico. Da un lato la necessità di sfuggire alle limitazioni temporali imposte dall’affresco stesso – che richiede stesure molto rapide, imposte dall’essiccazione veloce dell’intonaco – a favore di una tecnica che permettesse revisioni e una pittura precisa, analitica, tipiche del procedere leonardesco; dall’altro l’idea di superare l’opacità degli affreschi stessi, con la realizzazione di un’opera che apparisse non tanto come complemento dell’architettura, ma come un quadro luminoso, ricco di verità e dettagli, in grado di coinvolgere emotivamente l’osservatore con la sua “verità”. Egli intendeva dare al dipinto parietale la stessa verità lenticolare della realtà; lo stesso vigore realistico che era possibile raggiungere in dipinti di dimensioni medio-piccole, nella cosiddetta pittura da cavalletto. In questo modo agli avrebbe permesso ai monaci, mentre stavano nel refettorio, di sentirsi nella stessa stanza in cui si consumava l’Ultima Cena e di percepirsi come commensali di Cristo. E di compiere azioni, al cospetto del cibo, che fossero dotate della sacralità richiesta per il nutrimento dell’anima. Il dipinto parietale assumeva pertanto fondamentali valenze di meditazione, in una totale immersione del monaco nella costante presenza di Cristo, attraverso presenze vive del Messia e degli Apostoli.
LEONARDO SCEGLIE L’ATTIMO PIU’ ESPLOSIVO. LA PREVISIONE DEL TRADIMENTO E’ UN TUONO.
SILENZIO, POI IL BRUSIO E LE VOCI
Leonardo sceglie, per l’opera milanese, il momento più drammatico dell’Ultima Cena, analizzando la reazione degli apostoli alla pronuncia della terribile frase del tradimento previsto. Vangelo di Giovanni, 13 – “21 Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò: «In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà». 22 I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse”. E’ un annuncio che erompe nella stanza come un’esplosione che flette i corpi, come un immane boato. Leonardo sceglie il segmento narrativo 22. Cristo, al centro, imperturbato e in una profonda, malinconica solitudine, ha già assunto un distacco divino e il suo corpo è incorniciato dalla parete in cui si aprono i tre finestroni – che si configurano come richiamo al mistero trinitario -; è già consegnato al cielo. Lo scivolamento granitico della figura del Signore in direzione del compimento delle Sacre Scritture è acuito da una prospettiva centrale accelerata, che flette le pareti laterali, a imbuto, verso i finestroni luminosi. L’opera fu preparata con bozzetti, trasferiti su cartoni e trasposti successivamente sul muro. Il legame con il disegno preparatorio o undergrawing fu sempre molto stretto da parte di Leonardo come dimostra l’opera incompiuta l’Adorazione dei Magi.
I MATERIALI UTILIZZATI. PERCHE’ RIFIUTO’ LA TECNICA DELL’AFFRESCO
L’attenzione di Leonardo ai materiali – che non aveva pensato dovessero resistere centinaia di anni, ma ai quali chiedeva di svolgere una funzione fondamentale e intensissima nel segmento del proprio presente – fu favorita dall’amore crescente del pubblico di quell’epoca per la pittura ad olio. Ciò avveniva anche in seguito, proprio in quegli anni, alla diffusione della pittura a olio su tavola o su tela, dai Paesi Bassi all’Italia – si dice che il trait d’union fosse stato Antonello da Messina – un materiale che era già presente, in minima parte, nella pittura italiana, come additivo. Ma pigmenti – cioè polveri colorate – e olio di lino avevano rivoluzionato, per luminosità, vividezza e intensità l’arte dell’epoca, seppur da sempre, la tempera magra non fosse mai utilizzata unicamente dai pittori, che aggiungevano al colore sostanze organiche unte, già ai tempi di Giotto. L’olio di lino era il passaggio fondamentale all’ottimizzazione della resa, alla trasparenza, all’uso delle velature. Da questa suggestione, Leonardo si orienta al recupero di una pittura grassa, su muro, che si avvicinasse tanto ai dipinti da cavalletto quanto all’encausto o all’encaustazione dei dipinti parietali, praticata dagli antichi Romani per conferire una morbidezza serica ai colori nelle pitture parietali o su tavole di legno.
E’ pertanto parzialmente da riesaminare l’ipotesi in base alla quale Leonardo non abbia affrontato l’affresco semplicemente perché non aveva maturato esperienze precedenti in tal senso. Anche Michelangelo aveva accettato la sfida della Sistina, senza aver pratica dell’affresco; ma dopo la fatica iniziale delle prime giornate, ascoltati i consigli dai colleghi, aveva iniziato a dipingere molto speditamente. La differenza tra Leonardo e Michelangelo risiede nel fatto che il primo è analitico e contenuto nel gesto pittorico, mentre il secondo è sintetico e, dalla scultura, importa la violenza inferta alla materia. Nel rifiuto dell’affresco, per il Cenacolo, il fine leonardiano risulta evidente: creare una pittura parietale estremamente analitica, in tutto simile a un grande quadro. Egli intendeva offrire ai religiosi, che pranzavano in quella stanza, uno squarcio nel muro che li riportasse all’ora dell’Ultima Cena. Leonardo non voleva rievocare quell’episodio, ma renderlo perennemente parallelo, vivo, collocato sulla linea di un eterno presente. E ciò si poneva in sintonia perfetta con la teologia cattolica. La Messa non è un semplice rito rievocativo. Quando la particola viene benedetta è Cristo a vivere con i presenti, d’ogni luogo e d’ogni tempo. Il massimo realismo conferito al dipinto parietale scavava nella parete l’eterna contemporaneità di Gesù all’Uomo.
LA FUNZIONE TEOLOGICA DELL’ULTIMA CENA DI LEONARDO NEL REFETTORIO
Ogni opera realizzata all’interno di spazi sacralizzati non aveva funzioni decorative, ma intratteneva, con gli spettatori, un dialogo spirituale e intellettuale, finalizzato alla conferma, alla meditazione e all’approfondimento delle verità di Fede. Le opere d’arte sacra erano le Bibbie dei poveri, che consentivano anche alle classi sociali meno istruite di comprendere meglio i contenuti biblici e di rapportarli – attraverso una pittura realistica, molto spesso ambientata in luoghi e tempi vissuti dal fedele – alla propria quotidianità. Un’azione didattica e pertanto ideologica, al punto che le pianificazioni dei soggetti, delle scene e degli ambienti dovevano essere concordate dal pittore con una commissione di religiosi o con un teologo. L’Ultima Cena di Leonardo non sfugge all’implicita necessità di una comunicazione di verità teologica. Tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento si prospetta, prima, e si realizza, poi, una frattura insanabile tra il cristianesimo romano e e quello d’Oltralpe, in particolar modo quello tedesco, quello svizzero e dei Paesi nordici. Le origini del dissenso, diventato scontro e, successivamente, strappo, non riguardano soltanto la simonia, la ricchezza del Papa e del mondo ecclesiastico. Non contengono esclusivamente ragioni antiche di contrapposizione politiche tra Papato e le aree imperiali. Ma assumono connotazioni spirituali di grande peso. La riforma protestante fu preparata da decenni e decenni di dissenso che si fecero più acuti nell’epoca di Leonardo e che, in fondo, non erano stati cancellati dai tempi della repressione dei catari. In particolar modo si temeva la diffusione di un pensiero religioso che annullasse la corporeità della figura di Cristo, come Figlio dell’Uomo, ritenendolo solo una presenza spirituale. Né si intendeva affidare all’Eucarestia un mero rituale della memoria, ma si intendeva affidare ad essa il compito di richiamare Cristo alla mensa degli uomini.
Il pensiero sul quale fecero leva i committenti religiosi delle opere dipinte tra il Quattrocento e il Seicento fu, evidentemente, il seguente: Dio non solo è figlio dell’uomo – ed è quindi dotato di un corpo -, ma torna quotidianamente tra i fedeli, in occasione della celebrazione dell’eucaristia.
Questo scendere tra gli uomini, questo fondersi con loro al tavolo dell’eucaristia – e di offrire il sacrificio di se stesso nella particola consacrata – comporta, sotto il profilo iconografico, la scelta di rappresentare, come fondale alle figure e alle azioni di Gesù, degli apostoli e dei santi, gli stessi luoghi, gli stessi oggetti, gli stessi volti che caratterizzavano la dimensione quotidiana del fedele
Tutto partiva ancora da un confronto teologico sulla materia, com’era avvenuto ai tempi dei catari. Per i cattolici, la Messa non era soltanto commemorazione di un fatto lontano, ma rinnovamento della presenza di Cristo. Tra gli anabattisti e i loro discendenti spirituali permaneva il rifiuto della figura storica di Gesù e l’esaltazione dell’azione, svolta all’interno del credente stesso, dallo Spirito Santo, mediante le sue illuminazioni.
Lo svizzero Zwingli (1481-1531) negli anni successivi alla morte di Leonardo avrebbe argomentato che Cristo non può essere presente in più di un posto alla volta (in cielo e nell’ostia), e due sostanze (il pane e il Corpo di Cristo) non possono occupare lo stesso spazio nello stesso momento. Per il mondo protestante la Messa sarebbe divenuta poco più che la commemorazione di un fatto storico.
Ecco allora l’insorgere, in risposta alle “eresie” del Nord, di un fenomeno iconografico singolarissimo che rappresenta Cristo, in corpo, nel contemporaneo. Che partecipa alla Mensa e alla Messa.
LEONARDO APPLICA NELL’ULTIMA CENA TUTTE LE SUE “INVENZIONI” RISPETTO ALLA PITTURA
L’Ultima Cena vede la convergenza di un gran numero di quei concetti tecnico-artistici che Leonardo avrebbe formalizzato negli appunti confluiti nel Libro sulla pittura. Qui troviamo lo sfumato leonardesco sui volti degli apostoli , la prospettiva aerea nel paesaggio lontano , gli elementi della prospettiva lineare perfettamente delineati nella stanza e una complessa declinazione di quei moti dell’anima, che l’artista aveva ripreso dalla trattatistica di Leon Battista Alberti e da Vitruvio. Con la locuzione “moti dell’anima” Leonardo intendeva ciò che noi chiamiamo – con un sostantivo dotato di minor incisività – espressioni o espressività, cioè la trasposizione, sul soma, dei pensieri e dei sentimenti, nonchè delle inclinazioni psicologiche e caratteriali del soggetto (fisiognomica). Non solo. Qui troviamo perfettamente tradotto in una prodigiosa immagine un concetto che l’artista espresse nel suo trattato pittorico: l’estensione dei moti dell’anima dal soggetto principale alle figure comprimarie che attorniano il protagonista, attraverso atti ed espressioni, in grado di offrire una realistica rappresentazione dell’effetto psicologico suscitato dall’azione o delle parole del protagonista stesso sui personaggi secondari. Cosa significa tutto ciò? Leonardo teorizzò il fatto che, di fonte a un evento sconvolgente che riguardasse uno dei personaggi del quadro, gli altri non potessero essere dipinti come figure di complemento. E’ come un sasso lanciato sulla superficie immota dell’acqua. Il maestro invitava i pittori a rendere conto anche dei movimenti laterali che un evento o un sentimento forte provocavano sull’intera scena. Leonardo compie un prodigio: mischia, tra corpi e volti, la paura, la colpa, il terrore, lo stupore, l’amore, il dolore dell’abbandono. Gesù è un sasso che cade nello stagno immoto di una serata di festa. I movimenti dei corpi che egli provoca sembrano suscitati da onde emotive, che innalzano e abbassano le figure degli apostoli, quanto sugheri nell’acqua. In quegli anni esisteva anche un altro grande “psicologo” . nel senso etimologico di “colui che legge l’anima” – , in grado di scrutare e di rappresentare i moti dell’anima: Antonello da Messina. Ma in nessuna opera, prima dell’Ultima Cena di Leonardo, erano state colte, in tutte le sfumature, tante espressioni diverse. Solo la scultura gotica aveva anticipato queste forme di intensa analisi psicologica, che erano scese lentamente in direzione delle pittura. Le espressioni sono complesse da registrare con i colori. Il rischio è di scadere nel grottesco. Per questo rendere i moti dell’anima, in pittura, fu questione degli artisti più abili, anche sotto il profilo tecnico.
MATEMATICA E NUMEROLOGIA NEL CENACOLO
La matematica e la geometria, oltre a scandire gli spazi prospettici e a creare uno stretto contrasto tra l’ordine solennemente immoto della stanza e la movimentata, drammatica reazione degli apostoli, offre allo spettatore del dipinti un subliminale suggerimento numerologico, legato al rapporto trinitario 1:3 e al rapporto 3:4 tra il mondo divino e quello terrestre o sublunare. Oltre alle tre finestre dietro Cristo, troviamo le tre vele del soffitto e gli apostoli che interagiscono in 4 gruppi formati da 3 persone ciascuno. I gruppi in totale sono quattro, come gli scuri scomparti laterali.arazzi di ogni parete. Non può sfuggire il fatto che gli elementi numerici, oltre a ordinare perfettamente la composizione, creando un contrasto tra un ordine solenne e la concitazione drammatica degli apostoli, fossero originariamente contrassegnati da un linguaggio pitagorico, neoplatonico ed ermetico, applicato alla vita di Cristo e ai misteri di Dio – a quei tempi molto diffuso – qui utilizzato per suggerire i diversi aspetti teologici dell’Ultima Cena. Il rapporto tra Cristo (1) con i tre finestroni e le tre vele suggerisce l’emanazione trinitaria di Cristo e al tempo stesso indica il suo imminente ritorno al Padre, che è nella luce del paesaggio lontano, al di là dei finestroni. Gesù è consapevole della propria fine, del tradimento da parte di Giuda, del compimento del percorso terreno, dal quale si sta già allontanando. Egli rimane solo, con la consapevolezza di quanto egli dirà nelle ore successive, durante l’interrogatorio disposto da Pilato, davanti alla folla. “Rispose Gesù: « Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù ». (Giovanni, 18, 36). Cristo -Dio e uomo- nel Cenacolo di Leonardo sta abbandonando la dimensione umana. La terra è probabilmente rappresentata dal numero pitagorico quattro, evocato a destra e a sinistra, come varchi scuri che sembra non portino ad alcun luogo, a differenza delle tre finestre della Trinità, anche se la loro inclinazione prospettica converge sulla necessità di Dio. Interessante sotto il profilo del linguaggio numerico pitagorico è il fatto che i gruppi degli apostoli siano quattro (il numero terreno, che rappresenta primariamente i quattro elementi) e che questo numero non consenta la comprensione del divino che sta in loro (i gruppi sono formati da tre membri, numero divino). Leonardo crebbe a Firenze, nella città che era alla guida degli studi ermetici, neoplatonici e pitagorici. Nel capoluogo toscano erano stati per la prima volta tradotti i testi ermetici: e l’azione di Marsilio Ficino e della corte medicea aveva concentrato l’attenzione degli intellettuali sul rapporto tra numeri, misteri divini e insegnamenti occulti degli antichi filosofi, commisurati alla religione cristiana. Lo stesso Leonardo fu impegnato per molto tempo – al punto da abbandonare, come dice Vasari, la pittura – nell’operazione della quadratura del cerchio che, a giudizio dei pensatori ermetici avrebbe consentito di portare il cerchio del cielo al quadrato della terra, ricavando un rapporto quintessenziale, nel quale pulsava il rapporto della Creazione divina. Poggiarsi alla matematica e alla geometria, per un pittore rinascimentale, significava conferire un ordine divino alla propria opera.
LA FUNZIONE DELLA PROSPETTIVA NEL CENACOLO
Abbiamo evidenziato, in precedenza, che la prospettiva accelerata – le linee laterali sono particolarmente oblique – conferisce, da un lato, dimensioni ampie e solenni alla stanza dell’Ultima Cena – aprendosi alla metafisica dei monti azzurrini, alla distanza . e consente di inserire, in fughe altrettanto rapide, gli elementi architettonici dei muri e delle pareti. La scatola prospettica toglie il fiato allo spettatore. E’ fonda, ardita e lo risucchia verso il cielo, come se avesse perso ogni peso
Il punto di fuga, raggiungibile. in linea retta, dal corpo di Cristo all’ultima finestra centrale, di maggiori dimensioni, aperta al cielo, tende a sottolineare una sorta di allineamento direzionale, ricordando, ormai, la perdita progressiva del contatto del Signore con l’amata compagnia umana, per il ritorno dal Padre, che sta al di là di quegli spazi aperti.
PERCHE’ L’ULTIMA CENA DI LEONARDO FU UNA NOVITA’ ASSOLUTA
Riproponiamo, traendola dal nostro archivio, un’intervista del nostro direttore artistico a Pietro Marani, compiuta nel 2001, in occasione della mostra “Il genio e le passioni- Leonardo e il Cenacolo: i precedenti, i disegni, i riflessi di un capolavoro”.
E’ ben noto il ruolo di Leonardo: fondamentalmente con pochi dipinti – se consideriamo la produzione ben più vasta dei suoi colleghi – è riuscito a creare nella pittura del Quattro-Cinquecento un punto di non ritorno. Lo stesso “Cenacolo” è un dipinto realmente rivoluzionario. Quali erano i precedenti sullo stesso tema e quali furono gli elementi principali dell’innovazione pittorica leonardesca?
Prima di Leonardo, com’è ovvio, il tema dell’Ultima Cena era già stato trattato sia nell’ambito dall’arte medievale che in quello dell’arte rinascimentale. Ma la differenza stava in una diversa scelta narrativa. Le caratteristiche principali dell’iconografia medievale sono collegate direttamente alla celebrazione del messaggio eucaristico: è l’istituzione del sacramento della Comunione a dominare i dipinti, attraverso l’individuazione del momento in cui Cristo offre il boccone a Giuda, cioè a colui dal quale sarà tradito. Altre situazioni analoghe vengono trattate con bagaglio figurativo che deriva anche dall’arte bizantina. Sono chiari alcuni esempi – che presentiamo in mostra – nei quali possiamo evidenziare gli influssi dell’arte ottoniana o di iconografie impiegate in ambito bizantino. Sono miniature, piccoli dipinti su tavola e affreschi attraverso i quali è possibile capire come i pittori scegliessero di rappresentare l’ultima cena, come nodo che ponesse in gioco fatti ed elementi allusivi ed escatologici. L’intervento di Leonardo – che giunge al Cenacolo non senza aver sottovalutato gli esempi della grande pittura murale toscana ( Andrea del Castagno che dipinge un Ultima Cena a metà del Quattrocento o il Ghirlandaio, che si misura con questo tema nel 1480 – fornisce proporzioni monumentali alla scena scegliendo, nel dipingere, di utilizzare una scala maggiore del reale, (i personaggi sono cioè più grandi dell’osservatore) e calandosi nel preciso momento evangelico in cui Cristo annuncia: “ Uno di voi mi tradirà”. Leonardo osserva la stanza un istante dopo la sconvolgente rivelazione, evidenziando, sui volti e nelle posture, le reazioni che quelle parole suscitano tra gli apostoli. Ne esce uno straordinario fotogramma che fissa per sempre una serie di reazioni emotive, che pone in luce in maniera evidentissima le passioni degli apostoli, causate da questo annuncio che getta il gruppo nello scompiglio.
Leonardo è il forse il primo pittore ad introdurre nelle sue opere il “momento drammatico”. Egli insomma non delinea soltanto l’ambiente e la situazione narrativa, ma coglie la storia nell’”istante” in cui giunge a una svolta drammatica, come farà successivamente – e con esiti ancor più clamorosi – Caravaggio.
Il Cenacolo viene visto dai contemporanei come una “pittura parlante”. Ciò non accadeva prima. Pensiamo, ad esempio, ai tre disegni attribuiti al Perugino (1490) relativi all’elaborazione di un suo Cenacolo: le sue figure, benché più naturali di quelle di Andrea del Castagno e del Ghirlandaio, sono comunque immobili. Leonardo rappresenta invece sui volti e nelle posture il tumultuare dei sentimenti e, per questa straordinaria innovazione, viene preso come esempio ed imitato da numerosi esponenti della pittura settentrionale. Lungo il corso del Cinquecento, gli elementi innovativi del Cenacolo saranno diffusi attraverso le scuole bresciane, cremonesi e veneziane. Queste aperture influenzeranno, com’è noto, il giovane Caravaggio che compie una parte importante del proprio percorso di formazione proprio a Mi
Come in Caravaggio, anche in Leonardo esiste una forte componente teatrale nella costruzione della scena. Qualcuno afferma che il maestro di Vinci sia stato, a questo proposito, influenzato dalle tesi aristoteliche sulla poetica e sulla tragedia.
C’è indubbiamente anche una forte componente scenografica, ottenuta attraverso l’uso della prospettiva che ha lo scopo di duplicare lo spazio reale e farci immaginare uno spazio illusorio. Sull’avvicinamento dei moduli narrativi di Caravaggio ai topoi indicati da Aristotele si è espresso Gombrich. Secondo Gombrich, forse inconsciamente, il grande toscano ha fatto proprio un pensiero che era già stato elaborato dal pensatore greco. Pare comunque da escludere il fatto che Leonardo abbia potuto leggere Aristotele, nonostante esistano affinità e nonostante i risultati a cui il pittore perviene siano vicini agli esiti della “tragedia greca”. Come la tragedia ideale delineata da Aristotele, la pittura di Leonardo crea la catarsi nell’osservatore. ( catarsi, in greco antico significa purificazione rituale. La concezione della catarsi come liberazione dalle passioni risale alla trattazione aristotelica della tragedia, la quale assolve per il filosofo a una funzione di liberazione e di rasserenamento in quanto, per mezzo di essa, lo spettatore rivive le passioni allo stato contemplativo ndr) L’osservatore viene quindi portato, al cospetto del Cenacolo, a rivivere il momento del dramma. E’ come se sentisse l’eco delle parole pronunciate da Cristo. E’ come se fosse davanti a un tableau vivent.
www.stilearte.it